VALORE LEGALE: UN NOME, UNA GARANZIA?

di Matteo Franzoni, Valentina Campana, Michele Peli

31 luglio 2018, la deputata Maria Pallini (Movimento Cinque Stelle) ha presentato un Ddl per abolire la presentazione del voto di laurea ai concorsi pubblici.

3 ottobre 2018, il Vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini (Lega) tuona contro il valore legale delle lauree: “Negli ultimi anni la scuola e l’università sono stati serbatoi elettorali e sindacali: ecco perché l’abolizione del valore legale del titolo di studio è una questione da affrontare”, venendo prontamente smentito dal Ministro della Pubblica istruzione Marco Bussetti: “In questo momento non è in programma, non è che detto che poi non possa essere analizzato”.

Nonostante la smentita, già qualcuno intravede nel disegno portato avanti dal governo giallo-verde, una prima avanzata verso l’abolizione totale del valore legale della laurea. Torna quindi il vecchio cavallo di battaglia della Lega, che già negli anni passati si era espressa in questo senso, anche insieme ad altre forze politiche.
Il punto, però, non è tanto da imputare alla fazione politica in questione (anche perché, a ben vedere, la discussione va avanti dal 1947), quanto al concetto che si cela dietro questo famigerato “valore legale”. Capiamo, prima di tutto, di cosa stiamo parlando.
Il valore legale è la validità e il grado di ufficialità di un titolo di studio, riconosciuti ai sensi della legge. Questo vuol dire che il nostro “pezzetto di carta” ha un valore poiché viene attestato come ufficiale da parte dello Stato e viene anche certificata la “garanzia della qualità” del nostro titolo.
Ad esempio, se otteniamo una laurea in medicina a Milano, questa ha lo stesso valore di una ottenuta a Catania. Questo non avviene nel settore privato, libero di pesare diversamente le due lauree scegliendo, a sua discrezione, il candidato e l’ateneo più “competenti”. Ciò non accade però nei concorsi pubblici, dove lo Stato si trova obbligato a pesare le lauree nello stesso modo.

La polemica inizia nel momento in cui ci si rapporta al mondo reale e si prende coscienza delle diversità di atenei, cattedre e percorsi scolastici che influiscono sul voto finale e sulla preparazione.

Divisi i fronti e varie le opinioni. Tante le critiche e i timori: esiste la paura che l’abolizione possa incrementare le disuguaglianze, ma che al contempo possa portare ad un miglioramento degli atenei.
Il fronte abolizionista vede nella riforma la realizzazione di una società maggiormente liberale. A esprimere per primo l’idea fu Luigi Einaudi, rappresentante del P.L.I., nel libro “Vanità dei titoli di studio” (1947).
I sostenitori della riforma si dividono in due schiere: i fautori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio in sé per sé, e chi crede solo nella distinzione tra due lauree corrispondenti (stessa facoltà) conseguite in due università diverse. I primi sposano la tesi per cui chiunque, anche senza una certificazione, ha diritto ad essere valutato e giudicato per le competenze che ha, indipendentemente dal luogo in cui le ha acquisite. Così un chimico appassionato di diritto, studiando in autonomia, potrebbe presentarsi al concorso per magistrati e vincerlo. I secondi propongono una classifica statale delle migliori università basandosi sulla qualità della docenza.

Le università sarebbero infatti costrette ad assumere i docenti più rinomati per poter primeggiare. Ma in questo modo non si creerebbero poli elitari? A quanto pare no, poiché il provvedimento verrebbe accompagnato da un adeguato sistema di borse di studio, che permetta ai meno abbienti, ma meritevoli, di poter frequentare tutte le università della lista.
I contrari si pongono su una linea più pratica e sostengono che in questo modo non verrebbero valorizzate le competenze di coloro che hanno un’ottima preparazione, ma non un ateneo abbastanza famoso. La buona preparazione conseguita grazie alla professionalità di insegnanti bravi, e poco famosi, verrebbe dunque annientata da un sistema troppo rigido.

E il destino dei giovani docenti? Verrebbe loro preclusa una meritata carriera. Infatti, i rettori degli atenei più prestigiosi sarebbero occupati ad accaparrarsi professori già affermati, che solo arrivando farebbero risplendere il dipartimento interessato, annientando i futuri grandi nomi. Lo scenario che emerge è quello di un sapere sempre più chiuso, elitario e autoreferenziale, proprio una società granitica che non lascia spazio alle personalità in ascesa.

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